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Renato Tamburrini

 

Note sul dialetto di Settefrati

 

 

 

2a edizione

Copyright Renato Tamburrini, settembre 2008

 

  

Questo documento è concesso dall’autore per la pubblicazione sul sito www.settefrati.net. I diritti d’autore non sono ceduti.  La citazione, la riproduzione integrale o parziale e la diffusione per scopi non commerciali sono autorizzate, purché sia indicata sempre la fonte.    Non è permessa la modifica del testo e il suo utilizzo per fini di lucro.        .

INDICE

  

1. Premessa

        1.1 Lingua e dialetto                                

        1.2 Obiettivi e metodo                           

        1.3 Il quadro storico                     

        1.4 Il quadro linguistico            

        1.5 Il settefratese scritto                           

 

2. FONETICA

        2.1 Le vocali                                              

        2.2 Le consonanti   

 

3. MORFOLOGIA

        3.1 I nomi                                           

        3.2 I pronomi                                

        3.3 I Verbi                                             

        3.4  Articoli congiunzioni avverbi          

 

4.RIFERIMENTI                                                

 

5. DIZIONARIO >>>>

             

                        

 

 

 Carta dei dialetti italiani

                                           Image:Italy - Forms of Dialect.jpg

 

 

 

  1. Premessa    top

 

 

1.1 Lingua e dialetto      top

 

Anche se oggi quasi tutti quelli che parlano in dialetto lo utilizzano più o meno largamente accanto alla lingua “ufficiale” e sono generalmente consapevoli che si tratta di uno strumento di livello assai diverso (ovviamente quando sono tecnicamente in condizioni di diglossia, cioè riescono ad esprimersi in lingua nazionale e in dialetto), non  è altrettanto facile definire bene tutte le differenze. Infatti anche nella lingua “ufficiale” esistono livelli diversi a seconda dell’ambiente culturale e sociale e delle finalità  della comunicazione (i cosiddetti registri linguistici).  Lo stesso parlante si può esprimere in modi diversi a seconda del contesto, dal più familiare al più ufficiale.

In sintesi, per semplificare al massimo,  possiamo dire che una parlata dialettale è caratterizzata  dal non avere una lingua scritta adatta alla complesssità delle situazioni, dall’essere usata in un territorio abbastanza limitato e dall’essere inadatta a situazioni di tipo istituzionale o ufficiale (atti pubblici, scuola, comunicazione scientifica ecc.).

 

Proprio per queste sue caratteristiche il dialetto si va a collocare nel cuore della  “familiarità”, e rappresenta uno degli elementi principali con cui una comunità si riconosce: le tradizioni, le feste, il ricordo di un ambiente naturale e antropico comune sono veicolati da un linguaggio di nicchia, spesso ricco di  espressioni idiomatiche e termini specifici, considerati in questo contesto più pertinenti di quelli conosciuti attraverso la lingua colta ufficiale.

 

I dialetti, non diversamente dalle lingue - anzi in misura maggiore perché non hanno un corredo di testi scritti paragonabili  a quelli che contribuiscono a rendere più stabili le lingue-  non sono immobili nel tempo e sono sottoposti a cambiamenti anche importanti, per il continuo interscambio sia con la lingua colta comune che con le parlate più vicine; anche se i parlanti nell’arco della loro esistenza non avvertono pienamente l’entità dei cambiamenti e anzi a volte, quando il corso della storia è più lento,  hanno l’impressione quasi dell’immobilità.

 

Nel contesto della civiltà attuale, con l’abbondanza di influenze provenienti dai media, che si sono aggiunte a quelle classiche della scuola, della burocrazia statale e della predicazione, è naturale che il dialetto sia sottoposto a rischi di sopravvivenza e di omologazione in modo anche brusco.

 

Proprio con l’intento di contribuire a fissare un patrimonio sottoposto ad una veloce dissipazione ho messo un po’ in ordine appunti e riflessioni che occasionalmente avevo fatto. Lo spirito con cui li ho raccolti e rielaborati non è certo quello di alimentare rivendicazioni localistiche o romantiche ricerche di colori primitivi, ma piuttosto quello di offrire  una testimonianza e di arricchire quella biblioteca ideale di storia patria la cui creazione  è uno degli obiettivi che più volentieri abbiamo vagheggiato con l’amico Antonio. E mi pare veramente significativo, anche se apparentemente contraddittorio, che lo spazio per questa testimonianza di identità sia offerto dalla rete globale del web.


 

1.2 Obiettivi e metodo       top

 

Lo scopo di questo lavoro è quello di offrire una panoramica del dialetto di Settefrati attraverso la sintesi dei principali aspetti fonetici e morfologici e la raccolta di parole con l’indicazione del significato in lingua italiana comune e, quando possibile e abbastanza sicuro, anche dell’etimologia, soprattutto per quei termini che apparentemente o sostanzialmente divergono dall’italiano comune.

 

Il primo problema che si trova di fronte a chi voglia affrontare  un argomento di questo genere è la trascrizione: trattandosi di parlate senza tradizione scritta e con abbondante presenza di suoni non abituali nella lingua nazionale comune, si può cadere nella  più assoluta arbitrarietà; chi si occupa di dialettologia in modo professionale ricorre a una trascrizione fonetica che utilizza un segno diverso per ciascun suono:  il risultato è ineccepibile sotto il profilo scientifico, ma il tutto risulta poi difficilmente leggibile per il pubblico, anche di media cultura, che si avventuri con curiosità nella foresta delle parole patrie.

 

Ritenendo che il lavoro, che ho cercato di mantenere comunque a un livello seriamente documentato, non sia tanto destinato agli studiosi della materia, quanto piuttosto a persone che vogliono approfondire qualche aspetto del dialetto, prima di tutto ho deliberatamente evitato l’uso delle note a piè di pagina  (salvo due inevitabili ma brevi precisazioni per quanto riguarda la fonetica delle vocali)  che in molti casi avrebbero sì aiutato ad approfondire qualche punto, ma anche contribuito ad appesantire ancora di più una materia già di suo un po’ ostica.  Questa scelta è stata anche confortata dall’idea che la pubblicazione, almeno in questa stesura, è destinata a un sito web generalmente non frequentato da addetti ai lavori.

 

Per quanto riguarda la trascrizione delle parole quindi mi sono tenuto il più possibile vicino all’italiano comune e perciò ho usato praticamente solo due accorgimenti: come si può vedere meglio nella parte dedicata alla fonetica delle vocali, nel dialetto di Settefrati (ma anche dei paesi vicini) c’è una  grande quantità di e semivocaliche –con un suono contraddistinto da una forte lenizione ignoto all’italiano comune, ma frequente ad esempio nel francese- che spesso quando si scrive qualcosa in dialetto non sono neppure segnalate, perché sono percepite quasi come non esistenti. Da una parte sarebbe fuorviante trascriverle come la e dell’italiano comune, che ha sempre un suono pieno, anche quando non è accentata; dall’altra l’assenza totale della trascrizione sarebbe ancora più dannosa per la comprensione e ancora più sbagliata dal punto di vista linguistico;  e perciò ho scelto di segnalarle trascrivendo la “e” come ë (al computer il carattere ASCII si ottiene con ALT+137), seguendo l’uso prevalente nelle pubblicazioni di tipo dialettologico;  ad esempio, decisamente non va bene “frrar”, che lo rende incomprensibile e ostico, al pari di f’rrar’,   ma neppure “ferrare”, che solo chi conosce il dialetto potrebbe pronunciare correttamente: nell’opuscolo e soprattutto nella parte dedicata al dizionario, si troverà “fërràrë” che garantisce l’integrità della parola ma avverte che  quelle “e” sono deboli o debolissime. Il secondo accorgimento che ho utilizzato è quello di segnare comunque l’accento delle sillabe toniche, per la decisiva centralità  che hanno nel sistema fonetico dei dialetti italiani centro-meridionali, e quindi anche nel settefratese. Con queste due “regole” spero di essere riuscito a mantenere una certa aderenza alla reale fonetica del settefratese senza stravolgimenti, e nello stesso tempo a  fornire uno strumento di non troppo difficile leggibilità.

 

Non mi sfugge che anche questi due accorgimenti, specialmente il primo (segnalazione della e semivocalica) potrebbero però essere fastidiosi e inadatti allo scopo per tutti coloro che vogliono scrivere in dialetto (poesie, ricordi, citazione di una parola nel contesto di uno scritto in lingua…).

Per questa ragione più oltre (a pag. 13) ho avanzato una proposta complessiva sulla scrittura del settefratese che potrebbe semplificare il lavoro e nello stesso tempo presentare le parole dialettali in maniera leggibile.

 

 

1.3  Il quadro storico: le origini, la koinè romana, la frantumazione      top

 

 

Le radici della storia comune dei popoli che abitano la penisola italiana affondano sicuramente nei millenni. Ma per quanto riguarda la lingua bisogna partire dal primo millennio avanti Cristo, anche se relitti di lingue precedenti (pre-indoeuropee) sono presenti come fenomeni di sostrato anche nei nostri dialetti.

 

Nel primo millennio a.C., con varie ondate, popolazioni di origine e lingua indoeuropea provenienti dal Nord o, secondo alcuni, dalla penisola balcanica,  entrarono in Italia. Con il nome Osco-Sabelli sono chiamati tutti i popoli di lingua osca che popolarono la penisola, esclusa la Padania: non sono compresi gli Etruschi, sulla cui origine, nonostante tutti gli studi non è stata data ancora una lettura definitiva, e i Latini, appartenenti anch’essi al ceppo indoeuropeo, ma arrivati in Italia probabilmente qualche secolo prima degli Osco-Sabelli. Latini e Osco-Sabelli presentano comunque molte affinità religiose, culturali e linguistiche. Se ne deduce che fossero in qualche modo “imparentati”: d’altronde le fonti antiche, avvolte nella leggenda ma non per questo sicuramente infondate, legano i Sabini veri e propri sia alla proto-storia dei Romani che a quella dei  Sanniti, una delle etnie più rappresentative del gruppo osco-sabellico. Attraverso l’interazione con i popoli che già la abitavano,  che gli studiosi generalmente chiamano “mediterranei” senza pronunciarsi molto sulla loro natura etnico-linguistica, si formò una civiltà omogenea anche dal punto di vista linguistico: alcune caratteristiche proprie della lingua osca hanno attraversato l’unificazione del latino portata dal dominio di Roma,  e sono tuttora persistenti. E’ a questa civiltà italica osco-sabellica (che nell’insieme si estendeva dalle Marche alla Calabria -dai Piceni ai Bruzi-  e che si espandeva attraverso la pratica delle primavere sacre) che appartengono i nostri primi antenati documentati dalla storia. La nostra area era abitata sicuramente da popolazioni di questo ceppo: quando i Sanniti fecero la loro comparsa nella storia di Roma (intorno al 350 a.C.) la loro lega, con le grandi tribù dei Caracini, Caudini, Pentri e Irpini, rappresentava il più forte raggruppamento italico, e il loro dominio, che si era affermato nelle zone volsche e premeva verso le città greche della Campania, comprendeva con sicurezza Atina e Casinum. La valle del Liri era diventata una zona  fortemente critica, in cui l’espansione romana e quella sannitica vennero in conflitto. A prescindere dalla veridicità della localizzazione della sannitica Cominium distrutta dai Romani nel 293 a.C. – comunemente e secolarmente riferita alla nostra valle, ma messa in dubbio da studi recenti-   in ogni caso è incontrovertibile  l’antichità dell’assetto urbano di Atina e della consistenza del suo territorio (l’atinate agro di Livio), con la leggendaria fondazione di Saturno e la fama consolidata di punto nodale della  resistenza italica contro Enea, che le attribuisce Virgilio nell’Eneide. Come pure incontrovertibile è la presenza del santuario di Mefitis alle sorgenti del Melfa, vero e proprio locus sacer della nostra etnia, naturale via di comunicazione tra il Sannio e la valle del Liri,  con un interesse sicuramente incrementato dalla presenza delle miniere di ferro.

 

Il mondo osco-sabellico venne a contatto con la forza dell’espansione romana che alla fine, dopo quasi tre secoli di lotte sostenute prevalentemente dal suo nocciolo duro sannita, dovette soccombere: l’ultimo grande episodio nel I secolo a.C. fu la guerra sociale che gli alleati italici - che avevano posto la capitale a Corfinium e battevano moneta con la scritta “Italia”-  sostennero contro Roma per rivendicare parità di diritti: da lì in avanti la nostra area si innestò fortemente nella possente architettura statuale, militare e organizzativa del mondo romano (Atina diventa prefettura romana), fornendo attivamente militari,  amministratori, letterati,  poeti.

La dominazione romana, che qualcuno ha definito la prima grande globalizzazione, comportò una vigorosa  unificazione politico-amministrativa  e linguistica della penisola italiana, con una fisionomia riconoscibile ancora oggi perfino nella divisione regionale, dovuta soprattutto all’opera di Augusto (30 a.C. -14 d.C), che sotto molti punti di vista possiamo considerare il vero padre fondatore dell’Italia. Sostanzialmente questa è la base fonetica, lessicale e grammaticale di tutti i nostri dialetti, al pari di tutta l’enorme area linguistica neo-latina. Naturalmente anche il latino parlato non era omogeneo e regolare come quello che leggiamo nei testi dei classici, ed è accertata la presenza di  varietà locali e livelli linguistici diversi.

 

Dopo la caduta dell’impero romano (476 d.C) la nostra zona fu profondamente influenzata dai grandi centri monastici benedettini di San Vincenzo al Volturno e di Montecassino (fondato nel 529 d.C), non soltanto dal punto di vista religioso e culturale, ma anche politico-terrioriale. L’afferenza al ducato longobardo di Benevento e alle sue successive frantumazioni feudali - a partire dalla grande signoria di Capua-  e l’appartenenza al Regno unificato dal normanno Ruggero II  (1095-1154) documentano anche dal punto di vista amministrativo e politico un radicamento plurisecolare nel Meridione italiano. L’appartenenza all’area della grande civiltà  della Longobardia minor beneventano-cassinese forse ha lasciato anche una testimonianza preziosa  nel cuore della nostra tradizione, in quei vespri del 14 e del 29 agosto che, trasmessi oralmente nei secoli,  sono quasi miracolosamente sopravvissuti ai reiterati tentativi di eliminazione messi in atto anche in tempi recenti. Quei salmi, quelle antifone, quegli inni, con molta probabilità riecheggiano i modi del cosiddetto canto lombardo , praticato nella cattedrale beneventana fino a oltre il 1000 e comunque sopravvissuto a lungo nel cenobio cassinese. E’ come se una gemma di un leggendario tesoro del passato fosse stata incastonata nel rito che forse più di ogni altro esprime l’identità e la memoria collettiva del paese.

 

Sul piano strettamente linguistico, dopo la caduta del dominio poltico unitario di Roma, in tutto il vasto territorio del suo impero  le differenze si accentuarono, la fonetica si modificò sempre di più, e accaddero diversi fenomeni di semplificazione grammaticale e sintattica: si andarono così a formare svariate parlate, all’interno dell’’insieme delle lingue chiamate romanze o neo-latine. L’isolamento e la specificità fecero il resto, portando ad una forte frantumazione dialettale in tutta la penisola italiana, con particolare virulenza nelle zone montane, più isolate. Nel corso dei secoli anche i nostri dialetti si arricchirono di parole delle lingue di altre popolazioni che frequentavano l’Italia, e cosi abbiamo lemmi di origine gotica o longobarda, e poi francese e spagnola. In senso opposto, unificante o almeno omologante,  agivano la lingua degli atti governativi e burocratici, la Chiesa con la predicazione, gli scambi con i paesi viciniori che evidentemente non cessarono mai del tutto, anche con la l’aumentata difficoltà nelle comunicazioni.  

 

Dopo l’unità d’Italia una serie di fenomeni concomitanti andò man mano ad aggiungersi e a rafforzare la tendenza omologante: basti citare il servizio militare obbligatorio, gli scambi dell’emigrazione, l’estensione della scolarizzazione;  negli anni Trenta e Quaranta ci furono l’apparizione della  radio, il calcio e le canzoni, l’organizzazione dei bambini e dei giovani nelle associazioni del regime fascista; e infine nell’ultimo dopoguerra la televisione, la scolarizzazione sempre più spinta e in qualche misura anche l’introduzione dell’italiano nella liturgia.

Nel frattempo la creazione della Provincia di Frosinone nel 1927, con la separazione amministrativa dell’area di Sora e Cassino dal millenario retroterra campano, ha ovviamente comportato un aumento dell’influenza ciociaro- laziale nei nostri dialetti.

 

L’azione costante delle forze di frantumazione e di unificazione ha avuto come risultato quel dialetto -costantemente parlato per tutto il secolo scorso e ancora oggi fortemente vitale anche nelle comunità di emigrati-  che molti di noi ancora conoscono abbastanza.

Ovviamente i parlanti più anziani, o che hanno conservato all’estero il ricordo di una situazione più arcaica, hanno la percezione nostalgica di uno strato diverso del dialetto, rispetto al quale quello parlato in paese, sottoposto ad influenze ed evoluzioni, rappresenta comunque un allontanamento.

 


 

1.4  Il quadro linguistico      top

 

 

Il dialetto settefratese appartiene alla famiglia dei dialetti centro-meridionali, che si estendono  dalle Marche alla Calabria. Più precisamente  è un dialetto nord-campano con evidenti influenze delle vicine parlate del Lazio meridionale, dell’Abruzzo e del Molise.

 Il confine di questa vastissima area linguistica - che corrisponde quasi perfettamente  alle zone di insediamento delle popolazioni  osco-sabelliche  prima del dominio romano-   è segnato a nord da una linea che va grosso modo da  Roma  ad Ancona, mentre a sud ne sono escluse la Calabria meridionale  e il  Salento. 

La cartina  a pag. 4 mostra un quadro sintetico della ripartizione dei dialetti italiani.

 

Lungo la cosiddetta linea Roma - Ancona ( linguisticamente fondamentale come quella La Spezia - Rimini, che separa  i dialetti nord-italiani da quelli centrali) corre ad esempio il limite settentrionale dell’utilizzazione di ferraro per “fabbro”,  frate per “fratello”, femmina per “donna”, figliomo e similari (patremo, fratemo, ecc.) per “mio figlio” ecc., tenere per “avere”. 

Il fascio delle isoglosse significative che segnano a nord il confine dell’area dialettale meridionale è rappresentato dalla carta a pag. 12 (isogl. 8-12); nella stessa carta sono visibili le isoglosse che segnano il confine tra i dialetti del nord Italia e quelli dell’Italia mediana (isogl. 1-7).

E’ da sottolineare come queste linee corrispondano in una certa misura anche ai confini storici degli antichi stati italiani, cosicché la Toscana, che già ricalca in buona parte l’area etrusca dell’antichità, risulta  linguisticamente ritagliata  tra le due linee La Spezia-Rimini  e Roma - Ancona;  mentre quest’ultima,  risalendo dal Lazio verso l’Umbria (sfiorando a sud Perugia) e le Marche, risale il cosiddetto “corridoio pontificio”.

Della grande famiglia dei dialetti dell’ area centro-meridionale  il settefratese condivide le caratteristiche fondamentali dal punto di vista fonetico, morfologico e sintattico.

 

 

 

 

La cartina, riprodotta per gentile concessione dell’editore, è contenuta  nel volumedi Grassi-Sobreo-Telmon,  Introduzione alla dialettologia italiana. Roma-Bari, Laterza, 2003.


 

1.5    1.5 Il  settefratese scritto       top

 

 

I testi scritti in settefratese sono molto pochi. Spesso si tratta di componimenti scherzosi o occasionali. Dal punto di vista della trascrizione sono generalmente  poco affidabili. In questo panorama, e senza fare torto ad altre personalità brillanti e interessanti che occasionalmente hanno scritto qualcosa in dialetto, a volte magari senza pubblicarlo, come è capitato al pittore Alfonso Capocci, occupano un posto diverso e del tutto particolare le composizioni poetiche di Michele Buzzeo, non solo per la quantità e la regolarità della produzione, durata tutta la vita, ma anche per la vastità delle tematiche liriche. Questa non è la sede per rendere ragione degli aspetti propriamente letterari e poetici della sua opera, ma vorrei accennare a aspetti importanti dal punto di vista linguistico.

Per quanto riguarda il lessico,  la lirica di Michele Buzzeo rappresenta un grande deposito di memoria dialettale, con la consapevolezza che -da letterato quale era-  in qualche misura ha recepito termini della lingua colta o dell’italiano comune, integrandoli nel dialetto. Ma dal punto di vista della trascrizione resta esemplare per il tentativo di rendere il settefratese in modo piano, vicino al meridionale comune, in maniera non ostica e  incomprensibile. Purtroppo devo dire con rammmarico che, nonstante la presenza su settefrati.net di una cospicua raccolta di poesie, la sua lezione è stata quasi completamente dimenticata e non è stato seguito da quelli che si sono cimentati nel dialetto scritto, che in generale, anche se certamente con buona intenzione, tendono invece a produrre testi veramente “giargianesi”, intessuti di apostrofi in luogo delle  e semivocali debolmente pronunciate.

A mio parere un ritorno alla nettezza classica dei segni fonetici presenti nelle poesie di Michele Buzzeo -con una marcatura più sistematica e regolare dell’accento tonico e qualche riaggiustamento nell’uso di q e c- costituirebbe un buon programma per lasciarsi alle spalle le trascrizioni disordinate e depistanti che  di solito si leggono nella produzione locale.

 

Ricapitolando,  la mia proposta per la scrittura in dialetto è questa:

 

1)      Nell’ambito di una ricerca professionale di tipo linguistico-dialettologico, vigono regole specifiche per tutti i caratteri, vocali e consonanti che siano (trascrizione fonetica).

 

2)      Per un uso non specialistico, nel contesto di una citazione specifica, di un elenco, di un dizionario non professionale, dove però si deve comunque evidenziare l’esatto contenuto fonetico, è necessario segnalare:

a.      l’accento nella sillaba tonica di ciscuna parola, che è l’epicentro del sistema fonetico settefratese; di più, occorre che per la e  e per la o sia correttamente segnato l’accento grave (è  ò) per la pronunzia aperta e l’accento acuto (é ó ) per la pronunzia chiusa;

b.      le e semivocaliche: dopo qualche riflessione e qualche buon consiglio, sono arrivato alla conclusione che è preferibile e più leggibile l’uso della notazione standard dei lavori dialettologici, ovvero la  e con la dieresi (ë).

c.       per la a e la i  e u la accentate è sufficiente un solo tipo di accento  perché non hanno la variazione del suono aperto/chiuso; generalmente le tastiere di computer offrono l’accento grave (à, ì, ù).

Esempi: fërràrë, cuónë, òssa, gërëcónë, frèvë, chéssa

 

Avvertenza: con le tastiere senza caratteri accentati ricordo che si possono comunque ottenere con i tasti ALT + numero corrispondente

à  ALT+133

è  ALT+130

é  ALT+138

ë  ALT+137

ì   ALT+141

ò  ALT+149

ó  ALT+162

ù  ALT+151

 

3)      Per un uso letterario  (epigrammatico, lirico, narrativo) può essere auspicabile che il testo non sia appesantito da segnalazioni speciali; perciò

a.      può essere sufficiente marcare la sillaba accentata, grave o acuta quando necessario (vedi punto 2 a); questo si può praticare tranquillamente, non perdendo nessuna segnalzione fonetica importante, perché la regola che le e non accentate si pronunziano debolissime non ha eccezioni. 

Esempi:  ferràre, cuóne, òssa, gerecóne, frève, chéssa

b.      nel caso di difficoltà a disporre di tastiere con le vocali accentate,  e anche ad utilizzare il codice ASCII esteso,  sarebbe preferibile attenersi alla trascrizione più “classica” possibile, appunto secondo la lezione di Michele Buzzeo, restituendo al dialetto semplicità e scorrevolezza, ed eliminando drasticamente l’uso di altri segni che lo rendono ostico e incomprensibile. E’ evidente che operando in questo modo si ha lo svantaggio che bisogna “sapere” dove cade l’accento, per distinguere le e semimute, e bisogna anche sapere  se la pronunzia di o e e è aperta o chiusa: perciò è chiara la mia decisa preferenza per al soluzione 3 a  ; con la 3 b  si paga  “dazio”, ma il costo tutto sommato sarebbe certamente più basso di quello che paghiamo leggendo i prodotti poetici degli ultimi tempi, a volte simpatici e arguti, ma resi complicati nella lettura, con tutte le incertezze e  le incoerenze connesse alla notazione delle e in corpo di parola e in finale (del tipo:  f’rrar, cuon, g’r’con ecc.)

Esempi:  ferrare, cuone, ossa, gerecone, freve, chessa


 

2. FONETICA      top

 

2.1 Le vocali      top

 

Il sistema vocalico del dialetto di Settefrati, come di tutte le parlate dell’Italia centro-meridionale, è governato dall’accento: questa è la ragione principale che spiega la maggior parte delle differenze rispetto alle parole dell’italiano comune. Potremmo dire che quello che accade in questo ambito è forse il punto più complicato della fonetica settefratese, e richiede una spiegazione abbastanza tecnica.

 

Nella sillaba non accentata le vocali e, i, o, u si riducono a semivocale ë, debolmente ma sicuramente pronunciata: questo fenomeno è osservabile praticamente in tutte le parole dialettali. 

 

Nella sillaba accentata, vero e proprio centro fonetico della parola, in concomitanza con la riduzione descritta sopra,  si producono due variazioni:

 

a) dittongazione, ossia la vocale semplice accentata si trasforma in dittongo: esempio tipico la o latina  che diventa uo (bonus/ buónë,  porcus/puórchë); in settefratese la dittongazione coinvolge anche la a accentata  (che poi cambia il suono in o e in e: questo passaggio ulteriore è spiegato analiticamente più avanti)

 

b) metafonesi, ossia cambiamento di suono, spesso per influenza della vecchia vocale finale indebolita in ë: esempio tipico chiave/chiévë;

 

La a non accentata invece è più resistente: non si degrada a e semivocalica, e contemporaneamente nella parola non si produce il fenomeno dittongazione + metafonesi nelle vocali o e a della sillaba con l’accento:  quindi nel complesso abbiamo un esito assai più vicino all’italiano comune (buónë, ma f. bòna, cuónë ma f. càna, uóssë ma pl. òssa).

 

Questi tre fenomeni spesso si  combinano insieme e complessivamente accade che la vocale della sillaba tonica della parola  viene anzitutto enfatizzata e “marcata” con un suono più forte e prolungato; contemporaneamente (storicamente forse in una fase successiva) è sottoposta anche a cambiamenti di suono (metafonesi), mentre le vocali delle sillabe non accentate (a meno che non si tratti di a non accentata, come abbiamo visto) si indeboliscono, fino quasi a scomparire, trasformandosi nella semivocale ë: cosicché tutta la parola latina sembra come ricostruirsi attorno alla sillaba accentata, vero e proprio  “epicentro” di quello che potremmo chiamare un “terremoto fonetico”.

Una ulteriore “enfatizzazione” della sillaba accentata è data dalla frequente presenza di raddoppiamento nella consonante che segue la vocale o il dittongo accentato nelle parole sdrucciole, vale a dire nelle quali l’accento cade sulla terzultima sillaba (esempi: uóssënë, àssëna, fràttëmë, màcchëna, marìttëmë, miéddëchë). Anche questa uleriore marcatura è specifica di Settefrati centro e già a Pietrafitta è assente.

 

Detto in altri termini,  il dittongo come esito abituale della vocale tonica in presenza di e, i, o, u (ovvero della loro succedanea ë semivocalica) in finale di parola è un fenomeno ben radicato anche nell’italiano comune (buono da bonus), anche se abbastanza estraneo al toscano; nelle parlate centro-meridionali riguarda in modo prevalente la o accentata; nel settefratese (in Val di Comino sembra una sua caratteristica quasi esclusiva, ma si riscontra con un grado diverso anche a San Donato ed è presente in varie parlate abruzzesi e molisane) si manifesta anche in presenza di a tonica, producendo alla fine , se la finale della parola è una ë da  o/u, se la finale della parola è una ë da e/i (cuómpë /chiémpë, cuónë/chiénë): alla dittongazione in questo caso si associa visibilmente la metafonesi, ovvero:  nel caso del dittongo formato a partire dalla a (che darebbe ua o ia  tipo cuànë/kiànë) la a (che tecnicamente è una vocale velare) subisce anche un cambiamento di suono verso la e (che è una vocale palatale), se preceduta dalla palatale i, e verso la velare o se preceduta dalla velare u (puónnë/piénnë, uóssënë/iéssënë, cuónë/kiénë). Probabilmente questo fenomeno si è verificato in una stadio successivo e si spiega con l’ armonizzazione dei suoni vocalici (u-o, e i-e sono più vicine e “facili” da pronunziare di u-a e i-a). (1)

La metafonesi è comunque molto attiva in vari contesti:  la a che tende sempre a diventare e dopo una i (kiévë, magnié), l’alternanza maschile/femminile (rùscë/róscia, nfùssë/nfóssa, ùrsë/órsa) e del singolare/plurale (uóvë/òva uóssë/òssa, pócë/pùcë), la coniugazione del verbo (i’ magnë/tu miégnë, i’ bévë/tu bìvë).

La massima intensità del fenomeno si riscontra nel centro,  e si attenua o si presenta con connotati diversi man mano che ci si spinge verso  le frazioni del territorio comunale e poi nei paesi vicini.

La dittongazione a carico della a,  ma con gradazioni diverse,  è attestata abbastanza sia in area nord-campana che abruzzese-molisana. A San Donato Val Comino (2), ad esempio, paese confinante a Nord, abbiamo una situazione cuànë/kiànë, uàsënë/iàsënë, cuàmpë/kiàmpë.

 

Per quanto riguarda gli esiti della e e della i accentate, la situazione è piuttosto complessa, ma non dissimile dagli altri dialetti dell’area:  e, i, u lunghe latine conservano generalmente il suono intatto (léna, réna, fìnë/fìna, vìnë, vìtë, nìdë, lùcë, ùva, crùdë); per il resto c’è da notare una consistente presenza di metafonesi che, al solito, marca la differenza singolare/plurale (mésë/mìscë, pìrë/péra, dèntë/diéntë, pèdë/piédë), ovvero maschile/femminile (chìnë/chiéna).

 

(1)  Il passaggio dalla a alla e è un fenomeno frequente in molti dialetti italiani: è particolarmente riconoscibile nel versante adriatico, dall’Emilia-Romagna alla Puglia, dove si presenta intensissimo, ed è chiamato dai linguisti “palatalizzazione adriatica”

 

(2) Il dialetto di San Donato V.C. è molto documentato (Inchiesta AIS 1924, punto 701 e, recentissimo, il lavoro di Daniela Farina, Il dialetto di San Donato in Val Comino, pubblicato nel 2001; a quest’ ultimo, che ho consultato ampiamente, anche per le numerose affinità tra le parlate dei due paesi, rimando il lettore che volesse approfondire con una trattazione analitica e specialistica dell’argomento.

 

 


 

2.2 Le consonanti      top

 

Il sistema consonantico del dialetto settefratese è complessivamente coerente con gli esiti prevalenti nell’area centro-meridionale d’Italia, in particolare nel Lazio meridionale, nell’area campana e in quella abruzzese-molisana. Perciò mi limito a segnalare solo le caratteristiche più importanti.

Si rileva nel centro una tendenza diffusa a raddoppiare la pronunzia delle consonanti in corpo di parola (es. màcchëna, contro màchëna della campagna e di Pietrafitta).

 

Esiti principali

 

b: iniziale e intervocalica si presenta come v (vócca, varìlë, vàrva, vàva ) o come bb, con pronuncia intensa (bbiéglië, bbuónë, sàbbëtë, sùbbëtë), talora per ipercorrettismo (bbàligia)  o per influenza dell’ italiano comune (bbàrba invece del più arcaico vàrva);

 

c: generalmente davanti a i e e si palatalizza e si pronunzia quasi sc ( es. vuócë, pócë);

 

d: non presenta particolarità notevoli: la tendenza a trasformarsi in r in posizione intervocalica, frequente nel meridione e caratteristica del sandonatese, è quasi inesistente;

 

fi, fl:  l’esito abituale  è sc (sciùmë, sciuórë, scënnàtë, sciónna, rësciatà);

 

g: iniziale  ha un comportamento molto vario: di solito si presenta come i (iàtta, iërànë, iënèstra) o u/v (vuóllë),  ma abbiamo anche gg (ggiòstra) in parole evidentemente  entrate nell’uso più recentemente e/o influenzate dalla forma dell’italiano comune; ovvero perde sonorità (kaglìna) se seguita da vocale velare; in posizione intermedia  tende a mutare in v  (fràvëla);

gn: si presenta prevalentemente come n, più propriamente in, con palatalizzazione conservata  o meno da i (ainùccë, léna);

 

l: iniziale quasi sempre si conserva inalterata (lìma, lénga), ma palatalizza se seguita da i/u (gliùna,  gliunëdì, glìva); nell’intervocalica si presenta, non regolarmente, l’alteranza con r (pìrë , carëcàra );

lc, ls: la l si muta in  v (càvëcë, fàvësë) o cade (pócë);

ld, lt:  almeno 3 esiti: l si presenta come vë (savëtà), si raddoppia con assimilazione della d (càllë), diventa r (cuërtiéglië);

ll: intervocalica normalmente palatalizza in gl (capìglië, cavàglië, tuóglië);

 

mb: si presenta  come m o mm (mëglìccuërë, mmëttìglië) per assimilazione;

 

nd: dà nn (cannéla, mùnnë, mënnézza) per assimilazione, come in tutta l’area  meridionale fino a Roma,  (è stata ipotizzata una persistenza osco-sabellica);  sporadicamente il nesso nd è conservato (quand’arriva?);

nt: la t si conserva , ma tende decisamente verso la d, sonorizzandosi (quanda ggèntë!);

ng: normalmente si presenta come gn (chiégnë per piangere, màgna  per mangia, ógna per unghia, ógnë per unge, mógnë per mungere;

pl (it. pi): si presenta come ch (chiòvë, chianétta, chìnë, chiùmmë);

 

qu: la consonante labiovelare kw è tendenzialmente stabile (quàttrë, quarànta) talvolta si presenta con  perdita  dell’elemento labiale (ca da quia,  cocùnë da qualcuno, cìnkë da quinque, càma da squama);

 

s: in posizione iniziale generalmente si conserva , o passa  a “z”, come in italiano comune; nei gruppi consonantici st e sk, tende a schiacciarsi, dando come esito un un suono palatalizzato tipo  “sc”;

 

t : dopo nasale si sonorizza e tende a d (vedi sopra nt);

 

v:   iniziale solitamente si conserva (vècchia, vèspa, vèstë vìtë, ma iólëpë, che prob. è passato da golpe, e non è direttamente da vulpis); e così pure intervocalica (nèvë, nòvë, lavà), con qualche caso di caduta (iènca da iuvenca), o  in espressioni come “m’uóglië” da “më vuóglië”.i caduta (iènca da iuvenca);

 


 

3. MORFOLOGIA      top

 

3.1  I nomi      top

 

Il genere dei nomi è in gran parte identico all’italiano comune; casi sporadici di cambiamento di genere (es. la fànga) saranno via via segnalati nel dizionario. E’ invece significativa la presenza del neutro per una serie di parole che designano cose non quantificabili, e sono riconoscibili per l’uso dell’articolo lë invece del glië proprio del maschile. Questo neutro particolare, esistente in molte parti dell’Italia meridionale, non ha rapporto con il neutro latino, ed è chiamato “neutro di materia” o “neo-neutro” o “neutro romanzo” (cfr. Farina, 106) (es. càcë, làttë, pànë, sàlë, vìnë, uóglië, acìtë, mèlë, sànghë). E’ invece direttamente collegato al neutro latino il plurale in –ëra (da –ora) (es. càmpëra, téttëra, chiòvëra, bócchëra).

Come già ricordato a proposito della fonetica delle vocali, nelle articolazioni maschile/femminile degli aggettivi e singolare/plurale degli aggettivi e dei nomi è fortemente presente il fenomeno della metafonesi.

 

 

3.2  I pronomi      top

 

Personali

soggetto: i’, tu, ìssë/éssa, nu’, vu’, ìssë/éssë;

complemento: më, të, glië/la, në, vë, glië/lë.

Possessivi

Glië mié, glië tié, glië sié, glië nuóstrë, glië vuóstrë, glië sié.

Gli aggettivi possessivi mio (mié) e tuo (tié) sono enclitici nelle parole che indicano parentela e simili *(fìgliëmë, fràttëmë, sòrda, pàrtë, màmmëta, nònnëtë, càsta, ecc.), ma è presente, a seconda del contesto, anche il tipo la casa méa, glië fìglië mié ecc.

Dimostrativi

Cosa: quéstë, quéssë (equiv. a codesta cosa), quéllë;

Persona: quìstë/chésta, quissë/chéssa, quìglië/chélla, al plurale chìstë/chéstë, chìssë/chéssë, chìglië/chéllë.

Gli aggettivi dimostrativi sono uguali o con aferesi iniziale: stë/sta, ssë/ssa, quìglië/chélla, plurale stë, ssë, chìglië/chéllë.

Da notare la presenza di tutte e tre le articolazioni proprie dell’italiano colto e del toscano parlato (questo, codesto, quello): nel passaggio del parlante dal dialetto alla lingua comune codesto si perde; analogamente accade negli avverbi di luogo.

Indefiniti

Coccósa, cocùnë/cocùna.

 

* Per questa tipologia tipicamente meridionale, vedi la cartina a pag. 12., dove è mostrata la cosiddetta “isoglossa di figliomo”.

 

3.3 I verbi      top

 

Qui è presentata sinteticamente la coniugazione degli ausiliari, dei servili e delle coniugazioni standard; nel dizionario si darà conto di altri casi particolari.

 

Essere (èssë)

I’so’, tu siè, ìssë/éssa è, nu’ sémë, vu’ sétë, ìssë/éssë suó.

Part. passato  stàtë;  cong. cond. fóssë; imperfetto: éva, ìvë, éva, avàmë, avàtë, évenë; passato remoto:  fùsë , fuóstë, fó, ….fuórnë.

 

Stare (stà)

I’ stònghë, tu stié, ìssë/éssa stà, nu’ stémë, vu’ stétë, ìssë/éssë stiévë.

Part. passato stàtë;  cong. cond. stèra, stéssë; ger. stènnë; imperfetto: stèva, stìvë, stéva, stavàmë, stavàtë, stévënë; pass. rem.:  stìvë, stiéstë, stèttë, stèmmë, stèstë, stiérnë.

 

Tenere (tené) 

I’ tiénghë, tu tiè, ìssë/éssa tè, nu’ tënémë, vu’ tënétë, ìssë/éssë tiévë.

Part. passato tënùtë; cong. cond. tënèra, tënéssë; ger. tënènnë;  imperfetto: tënéva, tenìvë, tënéva, tënavàmë, tënavàtë, tënévënë ; pass rem. : tënìvë, tëniéstë, tëné (ténnë ?), tënèmmë, tënèstë, tëniérnë.

Funge normalmente da verbo ausiliare al posto di « avere » ; nell’area meridionale si alterna con « aggia », che si riscontra nella stessa Valle di Comino.

E’ da rilevare che in linea di massima il verbo ausiliare per la costruzione del passato prossimo è sempre “essere”; “tenere” è utilizzato per la formazione di molte locuzioni tipiche (më tè fàmë, më tè sétë, më tè suónnë) e per  le perifrasi del futuro, anche per indicare l’aspetto durativo o di necessità  (tiénga ì da “tienghe a ì”,  tiérna i’ da “tëniénë  a i’ ”, tèra fa da “tè da fà”, téta dicë da “tënéte a dìcë”). In questo caso all’imperfetto si usa però l’ausiliare avéva ecc. e la passato remoto “uósa, uósta, òsa, òmma, òsta, uórna”, (forse contrazione di habui, habuisti ecc.?)

 

Potere (pëté): i’ pòzzë, tu può, ìssë/éssa pò, nu’ pëtémë, vu’ pëtétë, ìssë/éssë puóvë.

Part. passato pëtùte; cong. cond. pòzza, pëtèra, pëtéssë; imperfetto: pëtéva, pëtìvë, pëtéva, pëtavàmë, pëtavàtë, pëtévënë; pass. rem.: pëtìvë, pëtiéstë, pëté (pòsa), pëtèmmë, pëtèstë, pëtiérnë (puórna).

 

Volere (vëlé): i’ vuóglië, tu vuó, ìssë/éssa vò, nu’ vëlémë, vu’ vëlétë,ìssë/éssë vuóvë.

Part. passato vëlùtë; cong. cond. vëlèra,  vëléssë; ger. vëlènnë;  imperfetto: vëléva, vëlìvë, vëléva, vëlavàmë, vëlavàtë, vëlévënë; pass. rem.: vëlìvë, vëliéstë, vëlè, vëlèmmë, vëlèstë, vëliérnë.

Abituale la caduta della v iniziale nelle espressioni m’ uóglië (da me vuóglië) e simili.

 

Dare (dà): i dònghë, tu diè, ìssë/éssa dà, nu’ démë, vu’ détë, ìssë/éssë diévë.

Part. passato  dàtë; cong. cond. dèra, déssë; ger. dènnë; imperfetto: déva, dìvë, déva, davàmë, davàtë, dévënë.

 

Fare  (fà): i’ faccë, tu fié, ìssë/éssa fà, nu’ facémë, vu’ facétë, ìssë/éssë fiévë.

Part. passato  fàttë; cong. cond. facèra, facéssë; ger. facènnë; imperfetto: facéva, facìvë, facéva, faciavàmë, faciavàtë, facévënë; pass. rem.: facìvë, faciéstë, facé (fécë), facèmmë, facèstë, faciérnë.

 

Andare (i’) : i’ vàglië, tu vié, ìssë/éssa và, nu’ iémë, vu’ iétë, ìssë/éssë viévë (con alternanza dei temi vad- e ir-, mentre l’italiano comune alterna vad- e and-).

Part. passato: ìtë; cong. cond. ièra, ìssë; ger. iènnë; imperfetto : ìva, ìvë, ìva, iavàmë, iavàtë, ìvënë; pass. rem.: ìvë, iéstë, ì, ièmmë, ièstë, iérnë.

 

Venire (vënì/më: l’aternanza ven/men si presenta in tutti i tempi, con variazioni a volte  legate alla persona): i’ viénghë, tu viè, ìssë/éssa vè, nu’ vënìmë, vu’ vënìtë, ìsse/éssë viévë.

Part. passato vënùtë/mënùtë; cong. cond. vënèra/mënèra vënìssë/mënìssë; ger. vënènnë; imperfetto: vënìva, vénivë, vënìva, vënavàmë, vënavàtë, vënìvënë; pass. rem.: venìvë, veniéstë, vénnë (vënì?), vënèmmë, venèstë, vëniérnë.

 

Verbi in -are (-à/-ié):

Mangiare (magnié): i’ màgnë, tu miégnë, ìssë/éssa màgna, nu’ magniémë, vu’ magniétë, ìsse/éssë màgnënë.

Part. passato magniétë; cong. cond. magniéssë, magnèra; ger. magnènnë; imperfetto magniéva, magnièvë, magniéva, magnavàmë, magnavàtë, magniévënë; pass. rem.:magniévë, magniéstë, magniè, magnièmmë, magnièstë, magniérnë.

(notare l’alternanza metafonetica  à/ié)

Pisciare (pëscié) : i’ pìscë, tu pìscë, ìssë/éssa pìscia, nu’ pësciémë, vu’ pësciétë, ìssë/éssë pìscënë.

Part. passato pësciétë; cong. cond. pësciéssë, pëscièra; ger. pëscènnë; imperfetto pësciéva, pësciévë, pësciéva, pësciavàmë, pësciavàtë, pësciévënë; pass. rem. pësciévë, pësciéstë, pëscié, pëscièmmë, pëscièstë, pësciérnë.

 

L’alternanza à/ié è correlata dalla presenza della vocale palatale i. In assenza (es. abbëttà, abbëlà, acchiappà, aspëttà,  lavà, rancëcà) si ha: aspèttë, aspiéttë, aspètta, aspëttàme, aspëttàte, aspéttënë; pp. aspettàtë ecc.) con conservazione della a del tema. (lavàmë contro magniémë)

 

Verbi in ere (-eve)

Bere (vévë/bbévë): i’ bévë, tu bìvë, ìssë/éssa bévë, nu’ bëvémë, vu’ bëvétë, ìssë/éssë bìvënë.

Part. passato vìvëtë/bìvëtë, più rec. bëvùtë; cong. cond. bëvéssë; ger. bëvènnë; imperfetto bëvéva, bëvìvë, bëvéva, bëvavàme, bëvavàtë, bëvévënë; pass. rem. bëvìvë, bëviéstë, bëvé, bëvèmmë, bëvèstë, bëviérnë.

Per questo verbo si registra nei parlanti un’oscillazione fra la regolare v (cfr. fonetica, consonante b) e la tendenza a utilizzare la bb, come accade in bbàrba  nei confronti del più arcaico ma praticamente desueto vàrva.

Per quanto riguarda il part. pass. la forma appropriata vìvëtë tende a essere soppiantata da

bëvùtë, analogamente a quanto si verifica con chiuóvëtë/chiëvùtë, presumibilmente per influenza dell’italiano comune.

 

Verbi in ire (-ì)

Partire (partì): i’ pàrtë, tu piértë, ìssë/éssa pàrtë, nu’ partìmë, vu’ partìtë, ìssë/éssë piértënë (alternanza metafonetica  à/ié).

Part. passato partùtë/rec. partìtë; cong. cond. partìssë, partèra ; ger. partènnë; imperfetto partìva, partìvë, partìva, partavàmë, partavàtë, partivënë; pass. rem.  partìvë, partiéstë, partì, partèmmë, partèstë, partiérnë.

Per quanto riguarda partùtë/partìtë vedi quanto detto sopra per chiuóvëtë e vìvëtë.


 

3.4   Articoli, congiunzioni, avverbi      top

 

Gli articoli determinativi sono glië/la sing., glië/lë plur., lë per i neutri di materia tipo lë pànë (vedi quanto detto per il genere dei nomi); quelli indeterminativi në/na.

Preposizioni congiunzioni e avverbi non presentano particolari casistiche morfologiche. Rimandando al dizionario per la trattazione caso per caso delle particolarità fonetiche e lessicali, segnalo alcuni casi più caratteristici, come ad esempio la congiunzione ca da quia, con caduta della labiale (vedi in fonetica-consonanti quanto detto per qu/kw).

Fra gli avverbi di tempo è opportuno notare  maddëmànë e masséra (stamane, stasera), uónnë iànnë iënòttë (quest’anno, l’anno scorso, la scorsa notte), iëtèrza (l’altro ieri, da die tertia) pëscrié (dopodomani, da postcras, mentre domani è presente come addëmànë), pëscrìglië (il giorno dopo dopodomani), céttë (presto), ndànnë (un tempo).

Per gli avverbi di luogo, analogamente ai pronomi dimostrativi, è da segnalare la presenza delle tre articolazioni proprie dell’italiano colto e del toscano parlato (iécchë, iéssë, lòchë per qui costì, lì): anche in questo caso nel passaggio all’italiano comune si perde la nozione del “vicino a chi ascolta”.

 

 

4.  Riferimenti      top

 

In questo contesto non ho ritenuto opportuno indicare una bibliografia vera e propria. Segnalo alcuni testi di riferimento, che ho utilizzato per il lavoro, e che formano un possibile percorso per un primo approfondimento dell’argomento.

 

 

- I dialetti italiani: storia struttura uso, a cura di Manlio Cortellazzo et al. Torino, Utet, 2002.

- Grassi-Sobrero-Telmon, Introduzione alla dialettologia italiana. Roma-Bari, Laterza, 2003.

 

- Farina, Il dialetto di San Donato in Val Comino. Formia, 2001.

- Merlo, Fonologia del dialetto di Sora. Pisa, Mariotti, 1920.

 

- Battisti-Anselmi, Dizionario etimologico italiano. Firenze, Barbera, 1975.

- Cortellazzo-Marcato, Dizionario etimologico dei dialetti italiani. Torino, Utet, 2005.

 


 

5.  DIZIONARIO

 

Ringraziamenti

 

Le parole riportate nel dizionario edizione 2008 sono 852, più del doppio della prima edizione.

Questo risultato è dovuto in gran parte alle segnalazioni e ai  consigli che ho avuto via e-mail e a voce, che hanno superato abbondantemente le mie aspettative.

Non potendo ricordarli tutti, e chiedendo preliminarmente scusa ai dimenticati, accenno brevemente a i compaesani che sono stati più attivi ed entusiasti.

 

Ricordo anzitutto Graziella Buzzeo Ginsburg (che a poche ore dalla pubblicazione sul sito mi ha fulmineamente segnalato “streviére”)  e i fratelli Maria e Dante Zazà, figli di Michele, naturalmente prodighi di parole e di ricordi familiari, anche commoventi.

Un grazie  speciale a Domenico Rustici,  a cui devo non solo la segnalazione di varie parole rare e desuete, ma anche alcune conversazioni con riflessioni etimologiche e qualche correzione di significato, a  Cesare Guerriero Musilli – a cui debbo una perla come iëmmèlle” -  ad  Aldo Venturini, che si è subito appassionato all’impresa.

Infine debbo un ringraziamentop anche a tutti quelli che  si sono complimentati del lavoro via e-mail o a voce, e sono veramente tanti per poterli ricordare  tutti, da Riccardo Frattaroli, fotografo direi ufficiale del sito,  a Francesco Cardelli, a Marcella Fabrizio Cardelli.

 

 

In assoluta anteprima mi piace segnalare che il lavoro continuerà anche con nuove iniziative, sempre rivolte a preservare e trasmettere il patrimonio linguistico e culturale del paese:

a)      una raccolta toponomastica dei luoghi: vie, frazioni, piccoli abitati, fonti, cime e  posti della campagna e della montagna; per questo lavoro mi aspetto un grande contributo “colettivo”

b)      il dizionario delle parole ri-organizzato per temi: il corpo, la casa, il lavoro, le cerimonie, le feste ecc.

c)      una raccolta di detti e proverbi, alla quale sta particolarmente lavorando Domenico Vitti.

 

 

Mi sembra giusto infine ringraziare esplicitamente l’amico Antonio Vitti che attraverso questo sito ha reso e rende possibile il recupero e la preservazione della memoria con operazioni come questa del dialetto,  e tante altre,tutte importanti e meritevoli di essere incrementate.. 

 

  

 

Per  segnalare errori, inesattezze e altre parole scrivere a:  renato.tamburrini@gmail.com


 

Avvertenze

 

Per una serie di ragioni che ho cercato di spiegare più dettagliatamente nella parte generale (Premessa, punto 1.2, pag. 5) non ho adottato una trascrizione fonetica scientifica, ma ho cercato di mantenere le parole leggibili e vicine il più possibile all’italiano comune.

 

Ho usato soltanto questi  accorgimenti, ritenendoli veramente inevitabili e - considerata la crescente diffusione del computer- nello stesso tempo abbastanza facilmente praticabili con la tastiera standard italiana (maggiori difficoltà si hanno ovviamente con la tastiera inglese, per la quale sono necessarie alcune impostazioni attraverso il set esteso dei caratteri ASCII):

 

1)      La “e” semivocale non accentata, che si pronuncia molto debolmente, è trascritta ë; in qualche caso, in cui è al limite fra la scomparsa e una pronunzia debolissima, è segnalata fra parentesi (ë). Nella prima edizione del dizionario, pensando alla maggiore facilità di uso della videoscrittura col computer, avevo utilizzato la e in corsivo.  Ma la notazione della e debole, indipensabile nel dizionario per maggiore chiarezza, a mio parere dovrebbe  però essere omessa nel caso di scrittura di testi in dialetto, poiché la regola che tutte le e non accentate sono deboli, ovvero si pronunciamo “alla francese”, non conosce praticamente eccezioni.  In base a questa considerazione ho accolto volentieri il consiglio dell’amico Domenico Vitti, perché ho verificato che la notazione ë , ampliamente usata dai linguisti, fa risultare anche più leggibile l’insieme della parola.

2)      L’accento della sillabe toniche è sempre segnalato; nel caso della “e” e della “o” l’accento grave (è, ò) corrisponde a una pronuncia aperta (it. prète, vècchio, còrpo, mòrto), l’accento acuto (é, ó ) corrisponde a una prononcia chiusa (it.  méssa,  crésta, bótte, nóce) ; la segnalazione dell’accento, per il suo carattere discriminante, a mio parere resta obbligatoria anche quando si scrivono testi in dialetto.

3)      Nelle parole che cominciano per “z” ho specificato se si tratta di una z dolce o sonora.

4)      Non ho neppure segnalato con k per  “c “ velare davanti a vocale palatale (e,i), come normalmente si usa nelle trascrizioni dialettali, anche in assenza di trascrizione fonetica scientifica: perciò si troverà “chésta”,  “chélla”, “chiézza”, “chianétta” e non “ késta, kélla, kiézza, kianétta, ecc.” ecc.  Anche questo “addomesticamento” delle regole mira a mantenere una grafia il più vicina possibile a quella dell’italiano comune, dove il k non è utilizzato e, quando necessario, è espresso con la grafia ch.

5)      Ho notato che talvolta scrivendo in dialetto alcuni utilizzano q al posto di c, o viceversa: considearndo le regole della fonetica italiana direi che questa pratica è sconsigliabile e fuorviante (ad esempio quóne per cuóne o anche cuànde per quànde) e che la pratica migliore consiste nel tenersi il più possibile vicini alla grafia dell’italiano comune.

6)      Alcune parole segnalatemi da una sola fonte, su cui non ho una sufficiente sicurezza della grafia o del suono, sono state lasciate in colore rosso. I lettori sanno che sono particolarmente soggette ad errori e che per esse sono ancor più gradite conferme o correzioni.

 

 

 

 

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11 settembre 2008