Dott. Antonio Socci

 

Capodacqua

Memoria storico-letteraria

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C’era una volta...Capodàcqua a Canneto, la sorgente delle gelide e chiare acque del fiume sacro sin dai tempi remoti dell’antichità greco-romana, quando vi accorrevano i devoti a venerare la dea Mephitis, la Dea della salubrità, nel suo bel tempio che i fenomeni naturali poi avevano sommerso nel silenzio delle fonti di acqua e, peggio ancora, della storia.

Ai piedi degli alti monti, all’ombra dei faggi, sulla parete estesa e grigia del ciclopico masso imminente, coperto di muschi e di licheni si legge invece la storia dei tradizionali afflussi di genti lungo il corso quieto delle acque, i popoli Appennini e gli Osciumbri con i loro riti delle Primavere Sacre dar l’addio alle giovani coppie migranti verso le terre del sud, portando nel cuore l’amore del genio dei padri e negli occhi l’incanto della bellezza, cerimonie che hanno cavalcato i secoli per giungere fino a noi: non si recavano anche i nostri padri a salutare la Madonna bruna prima di imbarcarsi per le Americhe?

E i feroci Sanniti che si opposero con eroismo all’espansione romana.

Infine vennero i Romani vincitori e poi i cristiani della buona Novella portata da Benedetto da Norcia, “tanta grazia sopra me relusse/ ch’io ritrassi le ville circumstanti/ dall’empio colto che ‘l mondo sedusse” come scrive il Padre Dante nella sua commedia. (Par. XXII 31 sgg).

Noi, un popolo tutto, ricordiamo l’erompere delle acque lì a Capodàcqua da quando eravamo bambini e ancora sonnolenti ci portavano a Canneto nei cesti di vimini a dorso di quadrupedi e già alla Rocca ascoltavamo trepidi il rombare della corrente del fiume giù a Campanaro, e alle sue sorgenti il silenzio ci assaliva mentre le ricche, salienti vene portavano dalle scaturigini profonde le acque del Melfa che scorrevano sull’alveo giallastro rilucenti di stellucce argentee che i pellegrini del centro Italia raccoglievano stupefatti e conservavano nei bianchi fazzoletti della festa.

Questo stupore non colpiva i visitatori della Dea pagana, poichè quello spettacolo veniva a noi proprio dal suo tempio sommerso, come vedremo in seguito: parlavano, i saggi, di scaglie di mica o di microframmenti ferrosi delle vicine miniere o anche di nascoste miniere di argento, le nostre miniere di Salomone!

Ci volevano forze impetuose per mandare le acque in superficie, ma non parlava forse lo storico greco romanizzato Strabone di un mega potamos, di un grande fiume?

Che il tempio fosse a Capodàcqua lo avevano intuito gli studiosi, il grande archeologo germanico Teodoro Momsen, il ricercatore di epigrafi latine nell’area mediterranea, quando vide nei giradini Visocchi ad Atina la colonnina votiva che il Numerio Satrio Stabilione e Publio Pomponio Salvio avevano dedicato a Mephitis, non ebbe dubbi e la fece riportare a Canneto, avendo il santuario dai grandi pellegrinaggi l’unico nella regione a presentare tratti storico-etnici esclusivi...

Gli archeologi sono come i poeti, prevedono il futuro leggendo il passato.

E a Capodàcqua sentivi aleggiare su l’accesa fronte gl’itali iddii, come cantava Giosuè Carducci alle fonti del Clitummo, pretestato nume infranto.

Ma torniamoci alle sorgenti del fiume a Capodàcqua e lo vediamo scorrere quieto sull’alveo pietroso e quindi farsi largo fin sotto le zolle del prato verde, rumoroso nel silenzio della faggeta che intanto copriva tutta una fauna bellissima, si avanzava in un laghetto ai Pioppi prima di precipitare con fragore e frettoloso nel suo corso verso la valle Campanaro e via alle plaghe del Comino beneficando e poi nelle gole pittoresche del Tracciolino fino a salutare il Garigliano nella sua corsa verso il Tirreno...il mare di Enea...

In primavera i fiori coloravano il prato e gli steli si curvavano fino a lambire il fiume in un Paradiso vero e proprio sotto il cielo di un azzurro terso, bello come il sole di Lombardia quando è bello!, come chiosava don Lisander ai suoi quattro lettori dei Promessi Sposi.

Potrei ancora toccare il vostro cuore nel ricordo o nel rimpianto di chi non vide, rievocando anche l’Apparizione della bianca Vergine alla incredula pastorella Silvana, la Madonna che tutti amiamo e veneriamo fervidamente, ma questo possiamo sempre immaginarlo, basta chiudere per un attimo i nostri occhi ed eccoLa in una nuvola rosa in mezzo agli angeli con la nobile mano sfiorare la grande roccia facendo cadere dal suo anello bellissimo la polvere d’argento nelle acque che intanto sgorgano copiose nel belare delle greggi assetate nella luce sfolgorante che illumina tutta la valle, mentre nel cielo azzurro volteggia superba l’aquila reale.

E la nostra Capodàcqua faceva da scena a questi eventi!

Ma un giorno tutto mutò, gli uomini moderni avevano visto in quel fiume una più grande fonte di energia, e sì che ne avevano già data di energia con le centrali di Castellone e di colle Romano.

In quella valle incantata una moltitudine di uomini irruppe improvvisamente con macchinari e mezzi mai visti dai poveri animali del bosco, gli orsi si impaurirono quando un mostro strano entrò in azione sbuffando e muovendosi con rumore di ferraglie avanti e indietro sul loro prato: era la ferrovia del signor Ducouvill a bidoncini ribaltabili, così lo scrittore Antonio Canino descrisse il panorama del cantiere, fra lo sfavillare degli utensili degli operai e il tonfo sordo delle benne a sondare il terreno per la costruzione di una diga in cemento, un’asta in termine tecnico, sul tratto terminale del fiume, al “vurio, onde convogliarne al massimo le acque in opere di captazione sotterranea da immettere nell’apposito canale e quindi alla fine gettare dall’alto sulle turbine della centrale elettrica di Campanaro 1.

Naturalmente bisognava deviare il corso delle fiume, all’uopo si costruì un tunnel in cemento nei pressi della sorgente e lo si fece sparire muto fin’oltre l’area della diga in costruzione, uno scherzo da niente e il gioco era fatto. Furono operati grandi scavi sul prato all’altezza della sorgente per prelevare enormi quantità di materiale utile alla preparazione della malta in cemento.

Il tutto senza avere un minimo dubbio sul rispetto della legge del 1939 sulla tutela paesaggistica in cui era compresa la valle di Canneto.

Certamente le autorità civili locali conoscevano tutto questo, il disegno delle opere in fieri e i danni che ne sarebbero derivati all’ambiente, ma concessero ugualmente a cuor leggero la licenza di fabbricazione, senza la quale nessuno poteva aprire un cantiere nel territorio comunale!

Era la primavera 1952.

Io ero a Genova e non ne ebbi contezza alcuna; scusate se personalizzo, ma io racconto e io vidi.

Quando tornai nell’agosto, naturalmente mi agitai a modo mio e mi associai ai soliti pochi, derisi da tutti e considerati dei poveri matti, nemici del dio Progresso e dei lavoratori; già...la facile demagogia di chi non aveva argomenti in materia (celebrale), cui però il popolo abboccò subito, inconsciamente o con malizia.

Noi contestatori dell’opera non ne mettevamo in discussione i fini, ma i mezzi e le scelte di attuazione: possibile che quella era la sola ed unica soluzione?, senza riguardo alcuno verso la natura e la sua bellezza, verso le tradizioni storico-religiose di quelle popolazioni.

Qui cadde l’asino, poichè a meno di considerarsi deboli di mente bisognava trovare una decente alternativa.

Intanto, a lavori ultimati finirono le polemiche e cominciarono le accuse contro chi aveva mortificato l’interesse pubblico.

A conclusione della bell’opera, un pugno agli occhi di chi entrava nella valle, fu imbandito un banchetto offerto dalla Romana Elettrica sotto le logge del santuario al quale oltre le autorità civili e religiose, il Vescovo in primis, furono inviati non poche persone, tra le quali guarda caso anch’io!

Colsi l’occasione e al brindisi finale prese la parola l’ingegner Baduel della Romana Elettrica, all’applauso d’occasione io intervenni e fui naturalmente biasimato dalla quasi totalità dei convitati, ma il Sovrintendente delle Belle Arti di Pisa 1, pensate, mi prese sottobraccio e uscimmo dal convivio, mi indicò il mostruoso ammasso di cemento della famosa diga e battendomi una mano sulla spalla mi disse: caro dottore, i buoi sono ormai usciti dalla stalla e, al più, si può mimetizzare il tutto anche con poca spesa... Invece, tutta l’area venne recintata.

Nel silenzio della valle il fiume mutilato e povero scorreva senza rumore, in punta di piedi. Sulle montagne russe lasciate da quei signori, tutto era sossopra, il prato della leggenda sconvolto, l’alveo non c’era più e davanti alla famosa diga l’acqua stagnava putrida e maleodorante: quell’anno a Canneto si videro le zanzare. Io scrissi sul Mattino di Napoli un lungo articolo di condanna: dicevo che allora bisognava riportare alla luce il tempio Mephitis e implorare la dea di bonificare tutta la zona.

Ho saputo in seguito che ci fu una grande cena in onore del Consiglio comunale a Grotta Campanaro, la cena della vergogna!

 

Ci avessero almeno forntio gratis l’energia che le nostre acque avevano generato.

 

“povero e vecchio fiume/quante gioie conosci e quanti dolori!”

aveva scritto anni prima il poeta atinate De Biasi.

 

Prendiamo un pò di respiro e continuiamo.

Anni dopo i politici della regione s’inventarono la grande opera dell’Acquedotto degli Aurunci, il Melfa doveva dare l’acqua agli assetati paesi da Cassino al mare, fino a Formia...

Non sapevo nulla di tutto ciò.

Necessariamente devo far riferimento a me, poichè sono io a narrare.

Nell’agosto del 1958 tornai in paese, al mattino presto fui svegliato da una lunga chiamata col batacchio; scesi subito ad aprire e, meraviglia delle meraviglie, mi si informava che il tempio della dea era stato individuato e un notabile mi mostrò cinque bellissime monete di epoca romana, di bronzo e argento, ben conservate, donate dal capo cantiere.

Naturalmente chiesi se ne era stata informata la Sovrintendenza, mi dissero che si stava per terminare una paratia sotterranea e subito dopo lo avrebbero fatto.

Bella idea, risposi, servite in tal modo gli interessi dei costruttori!

Le acque residue erano oro per i politici del tempo.

Ma est modus in rebus e poi, tutti a Canneto venivano!

Vediamo come andò a finire, a schifio direbbero i siciliani.

In fondo alla valle si doveva costruire una paratia sotterranea da monte a monte secondo un disegno tecnico preciso e invasivo al fine di captare le acque, tutte le acque della profondità di circa dieci metri, ma come risultò in seguito la profondità era minore.

La sorte di Capodàcqua era segnata, sarebbe stata sommersa per motivi “igienici”, così dicevano.

Ma il diavolo ha le corna, e ci mise lo zampino!

Lungo le perforazioni, specie a pochi metri di profondità all’altezza del fiume oltraggiato, vennero alla luce miracolosamente i resti del tempio di Mephitis: molte piccole teste votive raffiguranti la dea, monete dell’epoca moltissime, falli votivi impetranti la potenza, tanti segmenti votivi di arto, pezzi di cornicioni elaborati e, come raccontò il probo contadino Trotta, un busto marmoreo femminile con il seno nudo; egli aveva pudore a dirlo, non poteva inventarselo di sana pianta.

Di questo ritrovamento parla un bel sito sui Sanniti.

Che fine era toccata a questo materiale fittile di grandissima importanza?

Io e Puccio l’indomani ci portammo a Canneto e facemmo una visita discreta all’area dei lavori: una benna di notevole dimensioni era in azione, solo Piro rispose al nostro saluto e ci indicò i punti di repere della stipe, gli altri rimasero in silenzio. Puccio fece alcune fotografie e subito si accorse il sedicente ingegnere (Zì Cosimo, dove sei?)

Alle nostre mirate richieste ci fece vedere pochi e trascurabili reperti avvolti in carta da cemento, forse in previsione di una visita dei tecnici governativi...Ma non ci andò nessuno.

Altri parlarono di un residuo in mattoni che, tolto il fango, riluceva: ecco allora le stellucce di Capodàcqua!

Tutto fu trafugato, rubato, venduto (a proposito...molte di quelle storiche monete volarono fino in America e non dovrebbe essere difficile il recupero per amor di patria).

Quei lavori di costruzione della paratia erano alla fine

ci riuscirono senza che nessuna autorità locale o centrale avesse riguardo del carattere sacro e storico, quantomeno paesaggistico di quel luogo, senza che nessuno ostacolasse quel progetto o si stupisse della sua brutalità. Nessuno si stupì per quanto stava per accadere.

A questo punto bisogna essere chiari e ricostruire l’atteggiamento psicologico anche della cittadinanza, indifferente allo scempio della loro storia e delle loro tradizioni millenarie, per calcolo o per stupidità, per viltà o, per alcuni, per interesse.

Devo dire a discolpa che s’era loro prospettata, in caso di ricerca archeologica, la cessazione dell’erogazione di acqua e la disoccupazione.

Naturalmente quei timori erano inesistenti, tutto faceva parte del gioco sporco delle autorità e di alcuni mestatori di professione.

La gente ci evitava e se era impossibile abbassava la testa, l’avevano già fatta dall’inizio della vicenda.

La nostra solitudine era profonda, lo sconforto grave, ma la rabbia non ci prese poiché la nostra tempra era inattaccabile, sicuri di essere nel giusto.

Quanto tutto fu concluso e Capodàcqua sepolta completamente in una coltre di terra e di vergogna, lo scempio del fiume mutilato costretto nell’orrendo canale artificiale, solo allora si resero conto dei gravissimi danni inferti alla natura, alle tradizioni e alla storia nostra, alla cultura comune.

Tutto ora tace, il silenzio ha avvolto la valle e il fiume più non è,

E la mortificata dea Mephitis più non vedremo, nel suo bel tempio devastato dalla barbarie.

Tutto ora tace e più non vedremo le fredde acque sorgenti dalle viscere della terra, nell’ombra sub tegmine fagi, sotto alti monti, ove i re latini molto probabilmente venivano a consultar gli oracoli e dove la Vergine bianca apparve a Silvana dando origine alla nostra bella e dolce leggenda.

Ma non ci rassegnamo, la natura violentata a volte si ribella e demolisce le opere ingiuste dell’uomo.

Nel maggio di due anni or sono io e mia moglie Donatella nel corso di una visita in paese facemmo, naturalmente, un salto a Canneto; man mano che ci si avvicinava a Capodàcqua sentivamo un forte rombare che proveniva da quelle parti e una volta sul canale vedemmo un grande getto di acqua del diametro di mezzo metro che aveva perforato ad altezza d’uomo la famosa paratia e quelle pietre ad essa appoggiate nell’ingenua idea di darle una parvenza naturale.

E se fosse un ‘segno’ alle nostre attese?

Chi vivrà, vedrà.

 

Antonio Socci

25 aprile 2009

Home Presentiamo sopra uno scritto del Dott. Antonio Socci, medico settefratese residente a Pisa, intitolato "Capodacqua -Memoria storico-letteraria". Il Dott. Socci fu testimone impotente dello scempio che nel 1958 si perpetro` contro Capodacqua, il luogo piu' bello, il luogo piu' sacro della Valle di Canneto. ..... "Narra una pia leggenda..." e' l'alto incipit del racconto della nostra infanzia e della nostra vita, il racconto dell'apparizione della Madonna a Silvana, pastorella settefratese, li, a Capodacqua,  e...  pensate per un momento alla grotta di Lourdes,  con due grandi differenze: Capodacqua era naturalisticamente molto piu' bella e l'apparizione della Vergine e` almeno di mille anni precedente di quella avvenuta a Lourdes. E le sorgenti del Melfa  erano anticamente luogo di culto della Dea Mephite, dea della salubrita` e delle acque: i resti del tempio della Dea - precorritrice della Gran Madre di Dio Maria Santissima- vennero fuori massacrati da una sonda meccanica che, sotto le mentite spoglie di strumento di progresso, fu atroce strumento di quella neobarbarie che spesso contradditingue i nostri tempi. E` bene che i settefratesi sappiano quale orrore contro la religione, contro la storia e contro la naura subi' Capodacqua: sacrario della religione per gli abitanti di un'area che abbraccia "cento comuni", sacrario della natura in uno dei Parchi nazionali piu' naturalisticamente pregevoli dell'Europa, sacrario della storia per la presenza di un tempio  della Dea che un fenomeno naturale (metereologico-geologico?) aveva sepolto intatto, come si puo' arguire dalla presenza fra i framenti che la sonda portava in superficie di antiche monete romane (sparite ed in mano anche, purtroppo, a Settefratesi...: vergogna). Ed il tempio della dea sannita dovrebbe essere portato civilmente alla luce, ma l'operazione potrebbe rivelarsi problematica per via di due ostacoli: uno di natura tecnica data la complessa situazione orografica che renderebbe difficili gli scavi, un altro che e`  quello stesso che permise lo scempio, e cioe` una diffusa insensibilita` ai fatti della spiritualita` e della cultura per cui ci si preoccupa solo di cio' che va dalla "cintola in giu' ", sacrificando sistematicamente quello che va dalla cintola in su': il cuore , la mente, lo spirito. Lo scritto del Dott. Socci, restera' il miglior riferimento per il problema di Capodacqua, perche` ricostruisce con puntualita` tutta la vicenda, perche` viene da un testimone oculare (insieme a Puccio, e a "non molti altri"), perche' e' scritto con passione, perche' e' scritto benissimo da un punto di vista letterario, come tutti gli scritti di Antonio Socci. Solo Dio potra' un giorno restituirci il Sacro Fiume e le stellucce della Madonna e il tempio della Dea Mephite, profetessa di Maria. Niente e` impossibile a Dio e l'Onnipotente un giorno, quando e come vorra', riaprira` Capodacqua. Grazie Dott. Socci, grazie di vero cuore.