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Ricordo dell'Abate don Enrico Vitti

 

Riceviamo per mezzo di Puccio un bell'articolo del Dott. Antonio Socci, residente a Pisa, sull'Abate don Enrico Vitti, indimenticato ultimo sacerdote settefratese (almeno per ora ),  che amo' moltissimo Settefrati  e Canneto. Il  dott. Socci e` una delle nostre penne  migliori;  a lui il nostro saluto ed il nostro grazie, sperando di poter ospitare ancora i suoi scritti, che gia` sappiamo molto graditi dai frequentatori di questo sito. 25 settembre 2008

 

L'Abate Vitti

don Enrico, un salesiano a Settefrati...e lo sapeva

 

Ho accolto di buon grado l'invito di alcuni amici a ricordare l'Abate pur sapendo che in questo tipo di evocationi il pericolo dell'apologia è in agguato, ma il personaggio avendo molte sfaccettature lo si rincorre da un capo all'altro ed il fatto che si tratti di un paesano mi consente di non temere la cosa.

La caratterizzazione data ha un suo primo supporto nell'azione pastorale impressa fin dagli inizi del suo operare nella parrocchia affidata alle sue mani.

Voglio dire che pur osservando i compiti canonici, egli predilesse il mondo della gioventù, allora il paese era pieno di ragazzi che accorrevano alle novità entusiasti dell'azione svolta da quel sacerdote paesano e che chiamavano semplicemente Abate.

Un inizio clamoroso e unico in tutta la valle.

Don Enrico si premurò anche di trovare un oratorio ai suoi ragazzi e riuscì a fare della piccola edicola della Tribuna una vera e propria chiesa, con un restauro ex novo del quadro storico della Madonna, chiesa dove egli la domenica mattina celebrava una messa per i contadini della campagna richiamati dalle argentine note della bella campana fusa proprio al Colle, dove i paesani gettavano monete d'argento, campana che ancora porta al suo bordo gli onomatopeici versi del grande poeta De Antiquis nato nella vicina Picinisco.

Io non credo che il Nostro abbia conosciuto il Metodo Preventivo di Don Bosco, certo i suoi principi erano quelli, lo studio, il gioco e la preghiera, in un intreccio fruttuoso per tutte le componenti.

Intanto veniva invitato dai sacerdoti del Comino a predicare nelle loro chiese in più svariate occasioni liturgiche poichè egli era un buon oratore.

Ho raccolto a Genova da mio zio Pasquale Tamburri un curioso aneddoto: durante un magnifico quaresimale alla Madonna delle Grazie nei primi anni venti del secolo scorso, al sussurrare di un ascoltatore circa le similitudini con quelli di Padre Semeria l'abate rispose subito: non sapevo che tu conoscessi quel grande oratore dei Padri Scolopi, non ti facevo così colto! E ristabilì il silenzio nel generale assenso.

Da questo episodio il lettore avrà già conosciuto l’arguzia dell’Abate Vitti, carattere gioviale e fermo al tempo stesso; egli parlava in genere l’italiano, ricorreva al dialetto per farsi intendere meglio e non disdegnava il dotto latino.

In quei tempi ancora difficoltosi per le comunicazioni,  e non solo, egli aveva un ottimo rapporto con gli amici e parenti emigrati cui faceva arrivare notizie e informazioni varie, aiuto prezioso per la nostra colonia in America.

Egli aveva un grande devozione per la Madonna di Canneto e un amore per l’omonima Valle incontaminata, suonante delle acque gelide del Melfa, verde della faggeta intorno al prato della Leggenda, la piccola chiesa storica e misteriosa quasi nascosta fra le grigie rocce imponenti, sotto gli alti monti.

L’unico tramite, allora, era l’antico sentiero di lavoro e di preghiera.

Com’era bella la nostra valle!

L’Abate fino agli anni cinquanta del secolo scorso era il vero custode del santuario, si portava in sella al mulo fra i monti e respirava a pieni polmoni l’aria fresca di Canneto, provvedeva all’ordinaria ed extra manutenzione e nella preghiera trovava il suo conforto.

Sono certo che in quei silenzi intonava l’Evviva Maria con la sua voce possente.

Nei giorni del grande pellegrinaggio d’agosto, poi, accoglieva le tante compagnie dei devoti con abnegazione rara e serena, dava assistenza spirituale e materiale a tutti.

Restava solo davanti alla Madonna Nera il pomeriggio del 22, quando in paese scendeva la Bianca Signora fra il tripudio delle genti sotto un cielo di stelle e di colori.

Egli non vedeva mai in quei giorni i festeggiamenti in paese, restava a ridare alla chiesa il volto di prima e spedire ai poveri devoti derubati i documenti rinvenuti sopra i confessionali.

L’Abate era il vero custode di Canneto, era l’Eremita e non lo sapeva.

La grande gioia della sua vita arrivò nell’estate del 1934, quando il mitico Prefetto della Casa Salesiana di Gaeta, il veneto don Moretti gli chiese i locali del santuario per le vacanze annuali dei suoi aspiranti.

Accettò con gioia e quell’anno giunsero a Canneto i salesiani, cui egli prestò assistenza in ogni modo, preparando vere e proprie carovane di “vetture” per il trasporto di ogni genere di merci.

I canti dei figli di Don Bosco risuonarono in quella valle dove,  proprio per opera di quel grande Abate, essi edificarono tra i boschi la bella casa alpina lungo il sentiero che porta all’Acqua nera.

Fu un grande sogno che egli non vide realizzato.

I Padri Salesiani però gli avevano riservato un’arca in pietra affianco dell’altare nella Cappella, ove negli anni ’60 le sue spoglie vennero traslate con grande tributo di popolo, esaudendo così il suo desiderio di riposare fra i figli di  Don Bosco e nella Sua Canneto.

Ai piedi di quella tomba un giorno si sarebbe inginocchiato e avrebbe pregato un grande Papa.

Il nostro Abate meritava tanto.

 

 

Antonio Socci