L'Abate Vitti
don Enrico, un salesiano a
Settefrati...e lo sapeva
Ho accolto di buon grado
l'invito di alcuni amici a
ricordare l'Abate pur sapendo
che in questo tipo di evocazione
il pericolo dell'apologia è in
agguato, ma il personaggio
avendo molte sfaccettature lo si
rincorre da un capo all'altro ed
il fatto che si tratti di un
paesano mi consente di non
temere la cosa.
La caratterizzazione data ha un
suo primo supporto nell'azione
pastorale impressa fin dagli
inizi del suo operare nella
parrocchia affidata alle sue
mani.
Voglio dire che pur osservando i
compiti canonici, egli
predilesse il mondo della
gioventù, allora il paese era
pieno di ragazzi che accorrevano
alle novità entusiasti
dell'azione svolta da quel
sacerdote paesano e che
chiamavano semplicemente Abate.
Un inizio clamoroso e unico in
tutta la valle.
Don Enrico si premurò anche di
trovare un oratorio ai suoi
ragazzi e riuscì a fare della
piccola edicola della Tribuna
una vera e propria chiesa, con
un restauro ex novo del quadro
storico della Madonna, chiesa
dove egli la domenica mattina
celebrava una messa per i
contadini della campagna
richiamati dalle argentine note
della bella campana fusa proprio
al Colle, dove i paesani
gettavano monete d'argento,
campana che ancora porta al suo
bordo gli onomatopeici versi del
grande poeta De Antiquis nato
nella vicina Picinisco.
Io non credo che il Nostro abbia
conosciuto il Metodo Preventivo
di Don Bosco, certo i suoi
principi erano quelli, lo
studio, il gioco e la preghiera,
in un intreccio fruttuoso per
tutte le componenti.
Intanto veniva invitato dai
sacerdoti del Comino a predicare
nelle loro chiese in più
svariate occasioni liturgiche
poichè egli era un buon oratore.
Ho raccolto a Genova da mio zio
Pasquale Tamburri un curioso
aneddoto: durante un magnifico
quaresimale alla Madonna delle
Grazie nei primi anni venti del
secolo scorso, al sussurrare di
un ascoltatore circa le
similitudini con quelli di Padre
Semeria l'abate rispose subito:
non sapevo che tu conoscessi
quel grande oratore dei Padri
Scolopi, non ti facevo così
colto! E ristabilì il silenzio
nel generale assenso.
Da questo episodio il lettore
avrà già conosciuto l’arguzia
dell’Abate Vitti, carattere
gioviale e fermo al tempo stesso;
egli parlava in genere
l’italiano, ricorreva al
dialetto per farsi intendere
meglio e non disdegnava il dotto
latino.
In quei tempi ancora
difficoltosi per le
comunicazioni, e non solo, egli
aveva un ottimo rapporto con gli
amici e parenti emigrati cui
faceva arrivare notizie e
informazioni varie, aiuto
prezioso per la nostra colonia
in America.
Egli aveva un grande devozione
per la Madonna di Canneto e un
amore per l’omonima Valle
incontaminata, suonante delle
acque gelide del Melfa, verde
della faggeta intorno al prato
della Leggenda, la piccola
chiesa storica e misteriosa
quasi nascosta fra le grigie
rocce imponenti, sotto gli alti
monti.
L’unico tramite, allora, era
l’antico sentiero di lavoro e di
preghiera.
Com’era bella la nostra valle!
L’Abate fino agli anni cinquanta
del secolo scorso era il vero
custode del santuario, si
portava in sella al mulo fra i
monti e respirava a pieni
polmoni l’aria fresca di Canneto,
provvedeva all’ordinaria ed
extra manutenzione e nella
preghiera trovava il suo
conforto.
Sono certo che in quei silenzi
intonava l’Evviva Maria con la
sua voce possente.
Nei giorni del grande
pellegrinaggio d’agosto, poi,
accoglieva le tante compagnie
dei devoti con abnegazione rara
e serena, dava assistenza
spirituale e materiale a tutti.
Restava solo davanti alla
Madonna Nera il pomeriggio del
22, quando in paese scendeva la
Bianca Signora fra il tripudio
delle genti sotto un cielo di
stelle e di colori.
Egli non vedeva mai in quei
giorni i festeggiamenti in paese,
restava a ridare alla chiesa il
volto di prima e spedire ai
poveri devoti derubati i
documenti rinvenuti sopra i
confessionali.
L’Abate era il vero custode di
Canneto, era l’Eremita e non lo
sapeva.
La grande gioia della sua vita
arrivò nell’estate del 1934,
quando il mitico Prefetto della
Casa Salesiana di Gaeta, il
veneto don Moretti gli chiese i
locali del santuario per le
vacanze annuali dei suoi
aspiranti.
Accettò con gioia e quell’anno
giunsero a Canneto i salesiani,
cui egli prestò assistenza in
ogni modo, preparando vere e
proprie carovane di “vetture”
per il trasporto di ogni genere
di merci.
I
canti dei figli di Don Bosco
risuonarono in quella valle
dove, proprio per opera di quel
grande Abate, essi edificarono
tra i boschi la bella casa
alpina lungo il sentiero che
porta all’Acqua nera.
Fu un grande sogno che egli non
vide realizzato.
I
Padri Salesiani però gli avevano
riservato un’arca in pietra
affianco dell’altare nella
Cappella, ove negli anni ’60 le
sue spoglie vennero traslate con
grande tributo di popolo,
esaudendo così il suo desiderio
di riposare fra i figli di Don
Bosco e nella Sua Canneto.
Ai piedi di quella tomba un
giorno si sarebbe inginocchiato
e avrebbe pregato un grande
Papa.
Il nostro Abate meritava tanto.
Antonio Socci